C’è
una bellissima immagine di Luigi Pirandello in un romanzo, che si chiama I
vecchi e i giovani, scritto nel primo decennio del Novecento, che come dice lo
stesso Pirandello è << amarissimo e popoloso romanzo, ov’è racchiuso il
dramma della mia generazione >>. Pirandello parla di sé e del rapporto
dei giovani come lui con i vecchi, e usa una bellissima immagine: il giovane
sente di essere arrivato << a vendemmia già fatta >>; oppure, come
dirà nell’Enrico IV, un altro grande dramma legato a questa sua condizione
identitaria, << capisce (…) che sarebbe arrivato con una fame da lupo a
un banchetto già bell’e sparecchiato >>. Entrambe le immagini possono ben
essere, ancora oggi, l’emblema del rapporto tra le generazioni.
E allora è venuto
il momento di rompere tutto,
le nostre
famiglie, gli armadi, le chiese,
i notai, i banchi
di scuola, i parenti, le 128,
trasformare in
coraggio la rabbia che è dentro di noi.
(...)
E allora ci siamo
sentiti insicuri e stravolti
Come reduci laceri
e stanchi, come inutili eroi,
con le bende
perdute per strada e le fasce sui volti,
già a vent’anni
siam qui a raccontare ai nipoti che noi …
Non
è una poesia, ma è il testo di una canzone del 1976 di Giorgio Gaber, che si
intitola I reduci.
L’educazione
è uno dei modi attraverso i quali gli adulti trasmettono ai giovani valori,
comportamenti e rappresentazioni del mondo. Crediamo che il problema sia che
questa catena intergenerazionale si sia interrotta con l’inizio di questo
secolo. Nella cosiddetta Seconda Innaturale Nietzsche sostiene che ci sono tre
modi di fare storia: quella monumentale (i grandi monumenti che però non
comunicano nulla), quella antiquaria (le date da imparare a memoria) e quella critica,
che gli adulti non hanno più voglia di fare. Abbiamo smesso di raccontare la
storia e abbiamo cominciato a raccontare storie. Abbiamo creduto alla menzogna
che raccontiamo ai giovani – la frase killer – che << è sempre stato così
>>.
Noi
adulti siamo entrati nel 21° secolo << come reduci laceri e stanchi, come
inutili eroi >>. Gli ebrei dicono che il passato è davanti, perché lo si
conosce, mentre si cammina all’indietro verso il futuro. Ha una logica, perché
il futuro non lo vediamo. Walter Benjamin, ispirato dal quadro di Klee Angelus
novus, scrisse un famosissimo aforisma di filosofia della storia su questo
fatto: un angelo che si allontana dal passato verso il futuro. Quest’inversione
è importante: io guardo il passato che mi serve per orientarmi nel futuro, che
però è dietro le spalle per cui può sempre sorprendermi.
Il
Novecento era il secolo della trascendenza, del guardare oltre, in cui si
diceva ai ragazzi che << forse è sempre stato così, ma non sarà sempre
così >>. Questo è il senso della passione politica del Novecento. Noi
adulti siamo nel passato, si configura un baratro tra noi e i ragazzi: meno
male. Noi non vogliamo assomigliare ai ragazzi, e non perché non li apprezziamo
e non siano persone meravigliose, ma perché siamo diversi. Cosa imparerebbero
da noi se fossimo uguali a loro ?
Ma
chi glielo va a dire a quel tale che veste sempre jeans e felpe, quando non
mette giubbotti della polizia? Perennemente sui social a mangiare nutella e
scimmiottare il “giovanilese”. E va a vedere Dumbo con una ventenne che non è
sua figlia. Ma quanti anni avrà? Non sono affari nostri dirà qualcuno. Ennò!
Sono affari nostri, purtroppo. Ma confessiamo che non vediamo l’ora che
smettano di essere affari nostri.
p.
s.
Stavolta
dobbiamo farci perdonare parecchio. Abbiamo scomodato giganti della letteratura,
della canzone, della filosofia e della sociologia. Ma non sempre ciò che si
vuole dire può essere semplificato, accorciato e buono per tutti gli usi. A
volte è indispensabile soffermarsi e capire. E allora permetteteci un’ultimo
consiglio: rileggiamo Gennariello nelle Lettere luterane di Pasolini. Ancora,
dirà qualcuno. Essì, se vogliamo sforzarci di capire dobbiamo leggere, e
guardare avanti, al passato. Dimenticavamo: il titolo di questo editoriale lo
dobbiamo a Vittorio Gassman.