07 aprile 2019

I don Camillo della rivoluzione | L'editoriale della domenica


Il carattere angustamente personalizzato della lotta politica in Italia, questa sovrana mediocrità istituzionalizzata e questo tono che oscilla fra la bettola e la sagrestia, un mondo equamente diviso fra Peppone e don Camillo, irriducibili nemici con la tentazione dell’abbraccio, non ci sembrano una novità. Così come non ci stupisce il letargo provinciale del dibattito storico italiano eternamente e golosamente a rimorchio di presunte novità di questo o quello tra i sempre più numerosi sedicenti storici. Solo ci costringe a cercar conforto guardando con serietà, com’è d’uso, indietro. Un documento che conserviamo con cura ci racconta che i 1000 di Garibaldi in realtà erano 1090, la lista delle persone fornita dal Ministero della Guerra fu pubblicata nel 1864, dal Giornale Militare come risultato di un'inchiesta istituita dal Comitato di Stato. Per la maggior parte i volontari erano Lombardi (434), Veneti (194), Liguri (156), Toscani (78), Siciliani palermitani (45), Stranieri (35). Pochissimi i piemontesi, poco più di una decina. Solo 26 erano siciliani di altre città dell'Isola. La composizione sociale: 500 tra artigiani e commercianti, 150 avvocati, 100 medici, 20 farmacisti, 50 ingegneri e 60 possidenti. E una sola donna. Di popolino o contadini non ce n’era. La composizione politica era una sola, quella di sinistra, mentre quella sociale, quasi la metà erano professionisti e intellettuali, l'altra metà artigiani, affaristi, commercianti e qualche operaio.
L’omologazione globale tende ad attenuare ogni percezione di appartenenza e di identità, e noi siamo d’accordo, a patto che non porti a uno straniamento sociale irrispettoso di ogni valore e di ogni regola. Il territorio è un elemento irrinunciabile sul quale si svolge la storia, si consumano le esperienze dei singoli e si realizzano impegno e solidarietà civile. E’ questo un presupposto necessario per arrivare a riconoscersi in una patria comune. Da lungo tempo ci siamo assegnati un compito che non è risultato facile e lo sforzo messo in campo in anni recenti ha realizzato un impegno autentico che vuole testimoniare sincera solidarietà nazionale. Fondamentale in un momento in cui si alimentano derive autonomistiche al nord e velleità separatistiche al sud. Evidentemente non è fin qui bastata una comune esperienza unitaria, vissuta nell’arco di questo secolo e mezzo di storia, a sanare le ferite e le zone grigie del processo unitario. Ma noi ci auguriamo che con strategie e politiche adeguate si ponga mano ad una definitiva soluzione, seguendo l’imperativo di una rivalutazione della comune identità nazionale, pur nella ricca e preziosa varietà delle caratteristiche locali. Quel tale diceva che “il suo mestiere è tenere unita l’Italia”, e noi che abbiamo avuto il privilegio di frequentarlo in gioventù, siamo con lui.
 <<Io nacqui Veneziano ai 18 ottobre del 1775, giorno dell’evangelista san Luca; e morirò per la grazia di Dio Italiano quando lo vorrà quella Provvidenza che governa misteriosamente il mondo>>. È l’incipit de Le confessioni d’un italiano ed è Ippolito Nievo che parla e noi non intendiamo aggiungere altro.
I nostri 7 lettori avranno capito che stiamo parlando del Risorgimento. Meglio, non ne stiamo parlando. E non ne vogliamo parlare, noi che non siamo storici. Siamo seri! Diceva quel tale. Altri oggi nel pomeriggio si produrrà in chissà quali mirabolanti analisi, e sarà in buona compagnia. A lui e ai suoi sodali rivolgiamo la nostra solita raccomandazione. Foutez-nous la paix, chiens!

p. s.
Il tale che aveva per mestiere tenere unita l’Italia è Giorgio Napolitano. L’altro che invitava a essere seri è Totò.
Noi che non siamo storici ma qualche conoscenza la possiamo rinverdire, promettiamo di tornare settimana prossima sul tema dei movimenti separatisti. Quasi tutti del sud a quanto ci risulta e solo di recente approdati al nord.